Avevo cominciato cauto, leggendo “Un’amicizia”, la tua nuova impresa con Rizzoli: sottolineavo poche parole ogni tanto. Del resto non è una mia abitudine fissa. Poi, però, mi sono fatto prendere dalla matita: le ho consentito di scorrere sistematicamente per evidenziare le espressioni più forti per me, ma anche i fatti: praticamente adesso il mio libro è interamente segnato.
Insomma sono stato incollato a Elisa e Beatrice, le due ragazze protagoniste. Così uguali con la loro “fame di crescere” (anche se poi “crescere è una fregatura”, fai notare). Così differenti: la convivenza delle diversità delle amiche ma anche dei rispettivi genitori è un tema importante del romanzo. Che ha il fulcro nel “dissidio tra realtà e rappresentazione”. Quanto è vera la realtà che osserviamo, che percepiamo? Quanta finzione c’è in quello che diciamo di noi?
La questione riguarda i social, ovvero il modo di porsi in pubblico, di descriversi, di farsi credere così o cosà. Ma riguarda noi stessi a tu per tu: come ci raccontiamo? Cioè come ce la raccontiamo? Definirei realtà immaginaria quella su cui imponi l’attenzione. Le tue amiche si muovono in questa modernità. Ricca di possibilità e di deviazioni. E sono donne, con “il mistero di essere una femmina”. Donne che vivono. E perciò sbagliano. Vivendo.