Un capolavoro semisconosciuto dell’arte italiana nel cuore della capitale ha ospitato la prima presentazione del libro di Roberto Ippolito “Ignoranti”, edito da Chiarelettere, che svela quanto oggi è somara l’Italia. In un’atmosfera borrominiana, nella Chiesa dei Santi Celso e Giuliano, martedì 12 febbraio 2013 è stato svelato il contenuto del suo ultimo lavoro e si è sviluppata una riflessione appassionata. La suggestiva lettura di Ilaria Parisella di alcuni passi ha aperto l’incontro. Con Ippolito sono intervenuti Derrick De Kerckove, Ivan Lo Bello, Tobias Piller e Andrea Vianello. Poi l’infinita sequenza di dediche sulle copie di “Ignoranti”.
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La chiesa dei Santi Celso e Giuliano, in via del Banco di Santo Spirito a Roma, fu completata nel 1735. Nello stesso punto sorgeva una chiesa consacrata da papa Celestino I nel 432, ricordata sin dal 1088 e demolita nel cinquecento da Giulio II. Una prima ricostruzione progettata da Donato Bramante fu però eseguita limitatamente. Nel diciottesimo secolo venne invece realizzata da Carlo De Dominicis scelto da Clemente XII. Il restauro nel 1868 fu opera di Andrea Busiri Vinci.
La posizione assicurò a lungo un rilievo particolare. Ponte Sant’Angelo, a pochi passi di fronte via del Banco di Santo Spirito, era il passaggio obbligato provenendo dal centro per oltrepassare il Tevere e poter arrivare alla vicina basilica San Pietro.
Importante testimonianza dell’arte settecentesca, la chiesa richiama lo stile di Francesco Borromini. La facciata è a due ordini. In quello inferiore sopra il portale c’è una finestra ovale; ai lati due nicchie vuote. Teste di cherubini decorano la grande finestra dell’ordine superiore. Il vano unico ha una pianta ellittica con sei cappelle laterali e il presbiterio rettangolare.
Notevole la pala dell’altare maggiore: Cristo in gloria tra i santi Celso, Giuliano, Mariconilla e Basilissa (1736-38), capolavoro giovanile di Pompeo Batoni. Altre tele del ‘700 e stucchi di pregio arricchiscono la chiesa. La campana del cupolino del 1268 è ancora utilizzata. La più antica iscrizione rimasta che documenta le piene del Tevere, datata 1277, fu trasferita dall’edificio preesistente e murata lungo la strada, accanto all’Arco dei Banchi.