Era il luogo appartato dell’intimità. Dove lui dipingeva anche. Oltre che, negli ultimi cinque anni di vita, inviava le “Lettere luterane” e lavorava al romanzo incompiuto “Petrolio”. Quel rudere alto 42 metri, noto come la Torre di Chia, dal nome di una frazione di Soriano nel Cimino nel Viterbese, era il rifugio artistico affacciato sulla natura con le vetrate messe a punto grazie al restauro realizzato con il contributo di Dante Ferretti, sceneggiatore Premio Oscar.
Ma isolato fino a un certo punto, vista la consuetudine con gli abitanti di Chia. Tant’è vero che Pier Paolo Pasolini si diede da fare per la nascita di una squadra di calcio per i ragazzi del posto e si impegnò per l’istituzione dell’Università statale della Tuscia. Insomma c’è tanto dello scrittore, del poeta, del regista, dell’uomo nella Torre di Chia.
Che oggi è in stato di abbandono e in vendita: le istituzioni nazionali o locali non l’hanno acquisita pur essendo agevolmente sostenibili gli oneri per le tasche pubbliche, troppo pesanti invece per la sola erede, la cugina Graziella Chiarcossi. Ma la questione di fondo non è economica: una “casa” del genere non può che essere patrimonio collettivo. Come potrebbe essere diversamente per la Torre di Chia, con origini nel ‘200, scoperta da Pasolini mentre girava “Il Vangelo secondo Matteo” e vissuta poi con straordinaria intensità culturale fino all’assassinio 45 anni fa? Almeno i ladri hanno capito il suo valore, visto che hanno razziato tutto il possibile.
Caro ministro dei beni culturali Dario Franceschini, anche lo Stato potrebbe comprenderlo? Caro presidente della Regione Nicola Zingaretti, non è il caso di intervenire? Caro sindaco Fabio Menicacci, è possibile fare qualcosa? La Torre di Pasolini può essere comprata dalle istituzioni pubbliche e non da un privato. Deve, per essere di tutti.